Il Cantico dei Cantici
di Mario Mantelli
Almeno, per un’estrema pietà,/Dio ha soffiato il vento/ per fare una cosa sola dell’uomo/ e della foglia secca. Kikuo Takano
"Nel cimitero di Pomaro Monferrato, in un’edicola funeraria rivestita internamente di legno, di fronte all’entrata c’è una lastra di ferro di cm 264 x 113, traforata, che porta un messaggio fortemente poetico sulla morte. L’opera è di Mario Fallini e oltre al contenuto, pregnante di per sé, ci dà conto degli obiettivi raggiunti da questo autore, esprimendo al meglio alcuni caratteri della sua poetica. La superficie della lastra, si è detto, è traforata: i vuoti hanno i contorni delle foglie dell’acero e anche i contorni delle lettere che compongono frasi e frammenti del Cantico dei Cantici (con caratteri tipografici ogni volta diversi, come se alludessero a una metamorfosi vitale). Le foglie ritagliate sono state poi sparse, a rilievo, su questa superficie, come trasportate da una folata di vento, che viene dalla sinistra di chi guarda e prosegue a soffiare, secondo il progetto dell’autore, sulla fioriera a destra della lastra, dove andranno a depositarsi altre foglie, questa volta vere, che saranno l’omaggio dei visitatori ai defunti. Come si vede abbiamo una rappresentazione simbolica apparentemente semplice, ma che converrà commentare in dettaglio perché presenta motivi di approfondimento che spiegano la suggestione fortemente profonda che promana dall’opera.
L’uso del simbolo convenuto
Il punto di partenza di Fallini è l’accettazione del simbolo convenuto, così come nella forma c’è una similare accettazione dello stereotipo: il simbolo della foglia morta è forse quello più immediato per evocare la fine; esiste una tradizione in cui ci ritroviamo tutti, che va dalle antologie scolastiche della “povera foglia frale” di Arnault interpretata da Leopardi alla canzone di Prévert. Così per la forma scelta della foglia: quella dell’acero, quella che “più foglia non si può”, “più foglia secca non si può” (forse assieme a quelle del platano e della vite). Un altro elemento che colpisce l’osservatore è il riconoscere nelle frasi traforate della lastra i versi del Cantico dei Cantici, cioè l’esaltazione trascendente dell’eros come reazione anti–lutto oppure il corrispondente della bellezza rapita dalla morte, entrambi i casi così frequenti nella statuaria cimiteriale. Foglie morte e citazioni del Cantico dei Cantici fanno sì che la cattura dell’osservatore sia immediata, ma se l’operazione si limitasse a questo saremmo fermi ad un’illustrazione del simbolo, alla sua semplice nominazione e quindi saremmo portati a definire il tutto come artisticità letteraria. Non è così: lo stato d’animo da cui siamo stati conquistati è dovuto ad un effetto di forte poeticità perché il simbolo, al di là della sua chiarezza, ci è stato comunicato anche tramite un rafforzamento attuato dalla forma e dal trattamento del materiale.
Suggerimento del simbolo attraverso la forma e il trattamento del materiale
Dunque ci troviamo di fronte ad un rafforzamento del simbolo costituito dalla foglia morta. Infatti, secondo una delle possibili interpretazioni, la lastra è la superficie della vita e della natura. Facciamo notare come i versi del Cantico dei Cantici siano stati scelti fra quelli che inneggiano alla vita della natura e che “respirano” nel contesto naturale del legno retrostante (l’osservatore partecipa senza volerlo al collegamento foglia-legno richiamando nel suo subconscio la figura dell’albero come archetipo della vita). Ma la morte rompe questa superficie festante della vita. Al suo posto rimane una buia assenza, un vuoto. La foglia è stata ritagliata dal suo contesto e portata via, in un’altra dimensione. La ritroviamo più in là, trasportata dal vento, in una tridimensionalità trascendente, fuori dalla bidimensionalità della vita, dove fervono operosi, nella metamorfosi dei caratteri tipografici, i versi del Cantico dei Cantici. Chi è che provoca questo scompiglio? È una forza vitale, è il soffio biblico (ruah): “quando la polvere tornerà alla terra là dove era già prima,/ mentre il soffio vitale tornerà a Dio che lo diede.” (Qohelet, 12, 7). Così ne parla il Qohelet, in cui domina un’altra concezione di soffio riferito all’uomo e alle cose umane, che corrisponde all’ebraico hevel e che nei secoli è stato reso con vanitas (non sarà inutile a questo punto notare come i temi del flatus e della vanitas ricorrano con frequenza nelle opere di Fallini, ogni volta con formulazioni nuove). Come abbiamo detto il soffio prosegue idealmente nella realtà prossima all’opera, con la composizione di vere foglie destinate a seccarsi nella fioriera. Potremmo continuare a interrogarci sulla simbologia dell’opera e domandarci che cosa rappresenta la realtà delle foglie vere sulla fioriera: è forse un’allusione alla Resurrezione, a un ritorno della morte alla realtà del vivente? Oppure si potrebbe ricominciare da capo il “ragionamento” condotto sul simbolo e vedere, nei ritagli delle foglie e delle lettere praticati nella lastra, le impronte lasciate sulla terra da chi ci ha preceduto: orme, tracce, memorie, ricordi, così come ha interpretato Cappa in un contributo critico dedicato a questa stessa opera. Ma per l’obiettivo che ci siamo proposti la ricerca dei riferimenti simbolici dovrebbe fermarsi qui e poi è noto come il simbolo sia efficace anche per la sua ambiguità e suggestivo per la ricchezza delle interpretazioni che ne derivano. A noi interessava piuttosto rendere conto del fatto che con quest’opera particolarmente riuscita l’autore si svela maggiormente e ci dice più compiutamente chi è. Proviamo a trarne alcune deduzioni esaminando caratteri e procedimenti del suo formare.
Caratteri e procedimenti
1) Fallini è fondamentalmente un artista del progetto e non un artista del gesto. Il suo gesto è il disegno del progetto e, nel caso frequente della sua personale esecuzione, si attiene al disegno del progetto. Naturalmente ci sono state e ci sono tuttora delle eccezioni. Inoltre occorre dire che la metodologia dei suoi calligrammi va trattata a parte.
2) Fallini procede seguendo le due grandi coordinate dell’immagine e della parola, per cui è interessato al calligramma, all’insegna, all’allegoria e poi al motto, alla sentenza, al concetto, fornendo loro, paradossalmente, la “parola dell’immagine”, che prima non possedevano. La sua copiosissima produzione di opere (ognuna affidata ad una “trovata” e trattando i più svariati argomenti) ha come orizzonte un’enciclopedia della memoria. L’insieme che si viene via via formando è una “ricostruzione fantasista dell’universo”: si tratta di un’ambizione che si rifà alle tecniche della memoria di tradizione classico - rinascimentale sposate alle tecnologie di oggi: un teatro di Giulio Camillo riproposto al computer.
3) In ogni sua singola opera Fallini segue sostanzialmente questo metodo: mette in scena in modo affabilmente sentenzioso una concettualità rivolta a temi radicali come la morte, il sesso, il rapporto tra i sessi, l’aforisma filosofico, i vizi capitali, ma anche ai temi del quotidiano come il cibo, il giocattolo, l’infanzia, la sapienza popolare, la cultura pop e il gioco di parole. A rinforzo della comprensione l’icona utilizzata è quella prevalentemente pensata dall’immaginario collettivo. In questo modo si stabilisce un’immediata intesa, complice e concorde, con l’osservatore.
4) Ma esiste sempre un contemporaneo “secondo atto” in questo tipo di rappresentazione ed è una specie di contestazione, ampliamento, sorpresa, insinuazione del contrario di quanto affermato nel primo atto. La singolarità di tale “risonanza” è quella di essere legata alla forma e al trattamento dei materiali. Caso tipico: la riproposizione delle allegorie del Ripa delineate con i chiodi rivolti verso l’osservatore, chiodi incollati dalla parte della testa, non piantati, che pungono: quindi l’imitazione (in questo caso dell’immagine che esprime un concetto) finisce per essere sempre un po’ un’irritazione. E a volte si passa all’irrisione: se il primo atto, concettuale, è un Super Ego, il secondo, materiale, è un Es; se il primo è il Re il secondo è Bertoldo.
5) Quindi Fallini è un singolare caso di designer operante nel campo non funzionale della fantasia con un rapporto costante verso l’artigianalità con i suoi più diversi materiali: vetro, metallo, ceramica, chiodi, caratteri tipografici e parola scritta intesa come materiale da forgiare e manipolare.
6) La sua familiarità tanto con l’immagine quanto con la parola fa sì che noi incontriamo nelle sue opere sia lo spazio della forma che il tempo della scrittura. Non che la sua arte sia cinetica, ma a volte lascia intuire degli elementi di svolgimento e di sequenzialità, come se si trattasse di una performance surgelata o di un’istantanea prima della catastrofe (ad esempio nella sua opera Antisfondamento l’osservatore sa che gli elefanti fatti di un puzzle di plexiglas, dopo avere incrinato l’enorme cristallo, per lo sforzo andranno in mille pezzi subito dopo avere allontanato lo sguardo).
Mario Mantelli
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